comune di castell'arquato
La Storia
Nel Pliocene (5 – 1,8 milioni di anni fa) il mare occupava l’attuale Pianura Padana: la zona orientale della nostra provincia è così ricca di fossili marini del periodo compreso tra 3,5 e i 2,5 milioni di anni fa, che quello spazio di tempo è comunemente chiamato “Piacenziano”, mentre l’area è detta anche “Golfo delle Balene” per il buon numero di scheletri di cetacei che qui sono affiorati.
Nel territorio di Castell’Arquato ci sono due delle nove stazioni della Riserva naturale paleontologica del Piacenziano.
L’uomo abitò questa zona già nel Paleolitico Inferiore (200.000 – 150.000 anni fa), come dimostra il ritrovamento di cinque manufatti di selce.
Anche il Neolitico ha lasciato reperti risalenti al IV millennio a.C., mentre i pugnali di pietra ritrovati e le punte di lancia risalgono all’Età del Rame (2.000 – 1.800 a.C.).
Prima di essere colonizzato dai Romani, il territorio fu abitato da Liguri e Gallo-Celti.
Benché non ve ne sia evidenza, tra il III e il II secolo a.C. i Romani edificarono probabilmente un castrum quadratum sul luogo in cui oggi sorge la Rocca, al fine di controllare i Ligures; tracce di insediamenti romani sono invece emerse nei dintorni del capoluogo.
La tradizione spiega il toponimo del borgo attribuendo a Caio Torquato, cavaliere romano, la fondazione del villaggio, ma è più probabile che il nome derivi dalla forma del primo castello (quadratum) o dalla disposizione del borgo (arcuatus).
Durante la dominazione longobarda, Castell’Arquato divenne una tappa importante della Via dei Monasteri Longobardi, lungo la via appenninica che univa Pianura Padana e Lunigiana e che, in seguito, diverrà un’importante variante della Via Francigena (vedi capitolo relativo a Morfasso).
In questo secolo i documenti citano il borgo con i nomi di Castro Arquato, Castel Quadrato, Castello Alquaro: in essi di cita un nobile signore chiamato Magno che, tra il 756 e il 758, fece riedificare il borgo ed ingrandire la chiesa e, nel 789, donò il territorio ed i suoi beni al Vescovo di Piacenza.
Alcuni storici hanno collegato questa figura a quella di Carlo Magno (al potere dal 768 all’814), il quale, nel 774, scese in Italia per sconfiggere i Longobardi su invito del Papa Adriano I, col quale s’incontrò a Roma per definire i confini dello Stato pontificio, ma l’ipotesi non è provata.
Il dominio vescovile durò fino al 1220: dal 997, per conferimento di Ottone III, i vescovi avevano assunto il potere comitale; il primo vescovo-conte di Piacenza, e quindi di Castell’Arquato, fu Sigifredo.
Intorno all’anno Mille, nel borgo si svolgevano importanti fiere, e all’abitato fu aggiunto il quartiere Monteguzzo; il territorio veniva governato da uomini di fiducia del vescovo, i quali mantenevano efficienti le fortificazioni e riscuotevano le imposte da laici ed ecclesiastici.
Il vescovo Grimerio scelse di arroccarsi a Castell’Arquato tra il 1204 e il 1207, quando a Piacenza cominciarono ad entrare in conflitto Comune ed Episcopato: Grimerio pose le basi per una maggior autonomia del borgo dalla città.
Nel 1220 il vescovo Vicedomino vendette alla Comunitas di Castell’Arquato, che aveva già propri statuti, tutti i suoi beni in queste terre, comprese quelli siti in San Lorenzo, Vernasca e Lusurasco: per tre anni furono i consoli a guidare la popolazione, poi fu la volta dei Podestà, scelti dal Comune di Piacenza tra le nobili famiglie guelfe cittadine.
Nel 1256 il ghibellino Oberto III Pallavicino, detto Il Grande, attaccò invano il borgo guelfo.
Alberto Scoto divenne Signore di Piacenza nel 1290, e, a Castell’Arquato – che fu sempre la sua roccaforte - insediò il podestà Tedixo da Spettine (Bettola).
Nel 1304 il Comune di Piacenza cacciò lo Scoto e inviò Gabriele Pallastrelli a Castell’Arquato, ma, tre anni dopo, lo Scoto tornò per restarvi fino al 1317.
Galeazzo I Visconti attaccò la Rocca - in cui era asserragliato l’ex signore di Piacenza - il 16 maggio 1316, aiutato da Corrado Malaspina e dagli Arcelli: dopo un anno Alberto Scoto capitolò, e morì, prigioniero a Crema, il 13 gennaio 1318.
Nel 1322 i Visconti lasciarono temporaneamente Piacenza per la sollevazione del guelfo Obizzo Landi: in quel periodo Castell’Arquato era nelle mani di un partigiano visconteo, Manfredo Landi, il quale cedette il borgo al Comune di Piacenza, fino a che, nel 1336, Azzo Visconti tornò al governo.
Le importanti opere di fortificazione del borgo avviate da Azzo, ebbero maggior impulso nel 1342, sotto Luchino Visconti.
Nei primi anni del Quattrocento gli Scotti s’impossessarono di Castell’Arquato, ma, nel 1414, cedettero i loro diritti agli arquatesi sotto la pressione dei filo-viscontei Arcelli; il popolo si assoggettò quindi a Filippo Maria Visconti, che, nel 1438, offrì il feudo al suo capitano Niccolò Piccinino, quindi ai suoi figli Francesco e Jacopo.
Dal 1416 al 1470 il borgo cambiò nome in Castel Visconti.
Francesco Sforza, Signore di Milano, di Piacenza e del suo contado dal 1447, investì Bartolomeo Colleoni del feudo di Castell’Arquato nel 1453, quindi lo passò a Sceva da Corte e poi a Tiberto Brandolini da Forlì (1455): erano tutti capitani d’armi che, una volta cambiato mandatario, venivano spogliati dei beni acquisiti dal precedente Signore.
Bianca Maria Visconti, moglie di Francesco Sforza, alla morte del marito vendette il feudo al cognato Bosio Sforza, conte di Santa Fiora (1466).
Dal 1499 al 1512 il piacentino fu sottomesso ai domini francese e pontificio; nel 1512 Francesco Sforza di Santa Fiora riprese il governo del nostro borgo, seguito da Bosio II dal 1531 al 1533: alla sua morte il potere fu gestito dalla moglie Costanza Farnese, figlia di Papa Paolo III che, nel 1541, concesse a Castell’Arquato l’indipendenza da Piacenza.
Dal 1545, e per 30 anni, fu signore del borgo Sforza Sforza, celebre uomo d’armi figlio di Costanza e Bosio II: in quel periodo Ottavio Farnese elesse Castell’Arquato a marchesato.
A Sforza succede il figlio – cardinale – Francesco Sforza, sotto il cui governo si consumò la tragedia di due giovani amanti: Laura Dellavigna, figlia del custode della Rocca, aiutò l’innamorato Sergio Montale a fuggire dalle prigioni, dove era rinchiuso con l’accusa di cospirazione contro il cardinale. Entrambi furono trovati e decapitati.
Nel 1707, epoca del duca Francesco I Farnese, Castell’Arquato fu incluso nei confini del Ducato di Parma e Piacenza, seguendone le vicende.
Nel 1805 una sommossa di contadini comportò la feroce rappresaglia dell’esercito napoleonico, che depredò il Palazzo del Podestà e fucilò i prigionieri nella Rocca alla fine dell’anno.
Da vedere
Subito dopo il ponte si può cercare un posteggio ai piedi del borgo, o salire ai parcheggi del borgo alto.
Descriviamo qui un percorso che parte dai piedi di Castell’Arquato, lungo Via Dante.
Incominciando la salita al borgo, si incontrano la Porta e il quartiere di Monteguzzo, presso Via Dante: siamo nella parte bassa del centro storico, fatto di vicoletti e case in sasso. La porta rappresentava l’ingresso per chi proveniva da Fiorenzuola lungo la strada di costa, che allora attraversava il borgo: un tempo questo era l’unico itinerario verso la Via Emilia; il passaggio è riconoscibile in una volta d’arenaria a tutto sesto (inglobata in casa Guerra) dove si leggono ancora i gangheri dei battenti e gli alloggiamenti per le catene del ponte levatoio sul Rio Oriolo.
Proseguendo lungo Via Sforza Caolzio ci si trova al cospetto della chiesa di San Pietro, risalente al 1594. La facciata a capanna è divisa orizzontalmente da archetti pensili; nella parte superiore il rosone è sovrastato da un vano a forma di croce, mentre una finissima cornice in cotto adorna il portale a sesto acuto. L’interno a croce latina presenta un’unica navata a quattro campate culminanti in volte a crociera costolonate, e custodisce il sarcofago del conte Sforza Sforza di Santa Fiora, realizzato nel XVI secolo in marmo nero e sorretto da due sfingi greche; il conte è rappresentato in vesti romane insieme alle raffigurazioni della Fortezza e della Prudenza.
Si torna sui propri passi per entrare in Via Fontane del Duca, alla propria destra.
Al numero 26 si ammira l’oratorio di San Giacomo, commissionato a metà del XIII secolo dal Vescovo di Ventimiglia Jacopo, che volle farne dono al suo paese natale. La semplice facciata a capanna ha un solo portale, il cui architrave è sorretto da capitelli con palmette stilizzate; l’interno a navata unica è coperto da volte a crociera costolonate. Il tempio oggi è sede di un laboratorio di ebanisteria.
Più avanti c’è il Palazzo del Duca, un edificio prestigioso con monofore ingentilite da ricchi decori in cotto. Il suo nucleo antico risale al 1292, quando Alberto Scoto ordinò la costruzione del Palazzo di Giustizia, mentre i rifacimenti del 1527 furono commissionati da Bosio II Sforza, conte di Santa Fiora. Il palazzo prese ad essere chiamato “Ducale” quando, nel XVII secolo, divenne residenza di Alessandro Sforza, quindi del figlio naturale del cardinale Francesco e infine del duca Ludovico di Onano.
Sotto il palazzo si accede alle Fontane del Duca tramite dodici gradini; un muro, definito da un grande arco a sesto ribassato, presenta due lastre di marmo: una reca due blasoni, l’altra il bassorilievo dell’antico stemma del paese, affissi sopra sei bocchette di bronzo forgiate a testa d’animale, quattro mastini e quattro felini. Sulla sinistra c’è il lavatoio, usato dalle donne di Castell’Arquato fino ai primi del Novecento.
Il Palazzo, tramite un cunicolo sotterraneo e/o un ponticello, era unito al massiccio Torrione del Duca che, probabilmente, risale anch’esso alla signoria di Bosio II. L’edificio in laterizi a cinque piani ha un nucleo quadrato, inserito tra baluardi uniti da enormi archi a tutto sesto, che danno ad ogni parete un aspetto concavo; tre baluardi hanno pianta ottagonale, mentre il quarto contiene la scala a chiocciola. Il torrione culmina in una loggia sorretta da sedici pilastri.
Si prosegue lungo Via Fontane per immettersi ancora in Via Sforza Caolzio sulla sinistra, abbandonando così il quartiere Monteguzzo.
Dopo alcuni passi in salita, si arriva ad una seconda porta, inserita in un articolato edificio neomedievale che sbarra la strada: si tratta del neogotico voltone di Palazzo Stradivari, accesso alla parte alta del borgo.
La porta è sormontata da una torre quadrata con quattro merli ghibellini per lato, ed è ornata da decori geometrici: nell’intradosso c’è un affresco che raffigura San Giorgio e il drago.
Più avanti, sulla sinistra, c’è l’oratorio ducale di Santo Stefano, sorto nel Settecento su una piccola chiesa del secolo XI. La facciata a capanna è compresa tra due lesene, mentre il campanile termina in una cella campanaria ottagonale. Il tempio, al suo interno, fu affrescato nel XVIII secolo.
Poco oltre si trova la grandiosa – e sconsacrata - chiesa della SS. Trinità, edificata nel 1770; la grande struttura accanto alla chiesa, affacciata sia su Via Sforza Caolzio che su Via Riva, è l’Ospitale Santo Spirito: l’omonima confraternita aveva già fondato un Hospitale nel 1275, che nel XVI secolo fu trasferito nel borgo alto grazie ad un generoso lascito del condottiero conte Sforza Sforza. Nello stesso secolo fu aggiunto il portico a tre arcate in cotto, sovrastato da una loggia con colonnine in pietra a sostegno dell’architrave ligneo.
Il piano superiore dell’Ospitale è sede del Museo Geologico Provinciale, intitolato a Giuseppe Cortesi, professore onorario di geologia tra il XVIII e il XIX secolo.
Il Museo espone i reperti dei sedimenti marini della Riserva naturale paleontologica del Piacenziano, uno spazio di tempo compreso tra i 3,5 e i 2,5 milioni di anni fa che corrisponde all’ultimo periodo dell’Era Terziaria e che, in virtù della ricchezza di testimonianze fossili che ha lasciato la zona orientale della nostra provincia, è chiamato appunto “Piacenziano”.
Nel Museo si osservano i molluschi del Pliocene piacentino, gli invertebrati dello stesso periodo (tra cui il granchio perfettamente conservato), i vertebrati (squali, cetacei e animali del Quaternario) ed impronte di foglie. Una sezione è dedicata ai reperti provenienti da tutto il mondo, un’altra è riservata alla malacologia attuale. Un ulteriore reparto è allestito con i minerali divisi per classi.
Il Museo è aperto da marzo a ottobre e nei giorni festivi, e, su prenotazione, negli altri giorni dell’anno (tel. 0523.804266).
Proseguendo lungo Via Sforza Caolzio, al numero 57, troviamo la casa natale di Luigi Illica (1857 – 1919), riconoscibile per gli elementi decorativi in stile Liberty. Di fianco alla casa si visita il Museo dedicato al celebre drammaturgo e librettista, che, tra i suoi 37 libretti, scrisse le famose Manon Lescaut e - in collaborazione col Giacosa - Bohème, Tosca e Madama Butterfly.
Il Museo Luigi Illica è diviso in quattro sezioni: la vita, le opere (con manoscritti e edizioni d’epoca con spartito), le testimonianze (con lettere, fotografie, costumi di scena, il pianoforte e altri oggetti e documenti), e i materiali consultabili (libri, CD, audiovisivi, incisioni).
Al culmine della salita ci si trova nella splendida Piazza Alta, o Piazza Municipio, dominata dal mastio della Rocca Viscontea: la fortezza, coronata da merli ghibellini, fu iniziata nel 1342 dal Comune di Piacenza con Azzo Visconti e terminata da Luchino Visconti sette anni dopo. Molte abitazioni furono abbattute per erigere il fortilizio; fu occupata parte degli orti della Collegiata, della quale si dispose anche lo spostamento del campanile a destra del gruppo absidale.
Lo spazio recintato superiore racchiude il mastio, che si eleva dal fossato ad un’altezza di 47 m; il ponte levatoio, un tempo ingresso principale alla fortezza, è stato ricostruito.
Un altro spazio cinto da mura segue il pendio verso valle, ed è chiuso tra quattro torrioni angolari (solo quello orientale è integro); la torre esposta a nord-est era un ingresso secondario, oggi munito di ponte in muratura collegato alla Salita della “Solata”, su Via Magno.
Nel mastio ha sede il Museo della Rocca, che illustra la storia e la vita nella fortezza attraverso animazioni in 3D, filmati, immagini e pannelli illustrativi, spiegazione di tecniche militari; non mancano i chiarimenti circa i rapporti con gli altri castelli del territorio, i modelli di macchine da guerra e armi medievali e una voce narrante la storia medievale con supporto visivo.
Tra la Rocca e il fianco destro della Collegiata ci sono i Giardini Pubblici, con la rotonda fontana di Manfredo Manfredi (1911), ornata dallo stemma visconteo e da dieci medaglioni bronzei con le effigi dei benefattori.
Sulla piazza si affaccia il magnifico gruppo absidale in dorata arenaria della Collegiata di Santa Maria Assunta: le absidi sono arricchite da archetti pensili, lesene e monofore a forte strombatura, e da una deliziosa loggetta centrale; il campanile trecentesco è sulla destra.
La chiesa ha origini antichissime: come dimostra la data incisa sul fonte battesimale monolitico della quarta abside, il primo edificio risale al VII-VIII secolo e, a sua volta, fu eretto su un tempio pagano. A quei tempi la chiesa era già una pieve che, alla fine del secolo XI, divenne una Collegiata retta da un capitolo di canonici.
Il terremoto del 1117 comportò la ricostruzione del tempio, consacrato il 13 agosto 1122 dal vescovo Aldo.
La semplice facciata romanica della chiesa, tripartita da lesene, si affaccia su una bella piazzetta cui si accede anche dai giardini della Rocca. I conci di origine marina presentano resti di conchiglie fossili, come tanti altri edifici del borgo; il portale a tutto sesto è sovrastato da una semplice bifora e da una finestrella a croce. Sul lato sinistro c’è il tre/quattrocentesco Portico del Paradiso, dove venivano sepolti i nobili: il portale romanico che vi si ammira, a forte strombatura, è decorato da una lunetta in arenaria della seconda metà del XII secolo, in cui è raffigurata la Madonna col Bambino, San Pietro e un angelo.
L’interno mostra la sua romanica austerità.
Le tre navate sono divise in sette campate: quella centrale è coperta da capriate lignee, quelle laterali da volte a crociera con archi a tutto sesto, sorretti da pilastri trilobati culminanti in splendidi capitelli a soggetto antropomorfo, zoomorfo e floreale, probabilmente recuperati dal tempio crollato nel 1117. Altre parti primitive sono riscontrabili nelle sculture romaniche del XII-XIII secolo, visibili presso l’altare e l’ambone.
Nel XX secolo si è posto rimedio ai rimaneggiamenti settecenteschi, restituendo all’altare la sua primitiva semplicità; presso l’abside principale si ammirano un altare duecentesco e un Crocifisso ligneo trecentesco.
All’altezza della quarta campata c’è la barocca cappella di San Giuseppe, patrono del borgo. Le ricche decorazioni a stucco incorniciano molte tele, tra cui Sposalizio della Vergine e Nascita di Gesù di Giacomo Guidotti ed una Sacra Famiglia del Settecento.
La navata custodisce un altro autentico tesoro: la gotica cappella di Santa Caterina, (1455), costituita da due vani separati da un arco ogivale e coperti da volte a crociera costolonate. La cappella è completamente coperta da affreschi che raffigurano il ciclo della Passione, Esequie e Gloria della Vergine e Santa Caterina; inoltre vi si ammira un antico fonte battesimale.
La cappella prende luce dalla monofora affacciata sul chiostrino tardo-duecentesco, chiuso su tre lati da un loggiato a due piani. Colonne ottagonali in mattoni sorreggono il soffitto ligneo; ottagonale è anche il pozzo al centro del piccolo cortile di ciottoli.
Dal chiostro si accede al Museo della Collegiata, che conserva reperti provenienti dalla chiesa e da edifici sconsacrati dei dintorni. Tra i tesori di maggior rilievo si ammirano: pergamene a partire dal 1120; un polittico ligneo intagliato del primo Quattrocento; una meravigliosa croce processionale in argento dorato, cesellato nel XV secolo dal bergamasco Bartolomeo Zucconi; la mantellina di Paolo III Farnese; iscrizioni medievali; vari oggetti sacri, sculture e numerosi dipinti del XV e del XVI secolo; due preziosissimi paliotti duecenteschi di manifattura bizantina, ricamati in oro e argento su seta purpurea e donati alla Collegiata dal patriarca piacentino di Aquileia Ottobono de’ Feliciani (1314). Presto si potrà rivedere anche il Ritratto di Pietro Vigarani, l’opera di Gaspare Landi (1756 – 1830) rubata al museo nel 1971.
Ricordiamo che con il biglietto cumulativo è possibile visitare tutti i musei del borgo con € 6,20 (Info: I.A.T., tel. 0523.803091).
Sulla Piazza Alta si affaccia il caratteristico e articolato Palazzo del Podestà (o Palazzo Pretorio) il cui nucleo antico, a tre piani coronati da merli ghibellini, risale al 1292, epoca di Alberto Scoto. Al suo interno ha sede l’enoteca comunale.
La doppia loggia sul lato corto, detta Loggetta dei Notari, risale al 1447: quattro archi ogivali dividono il portico in due campate. La scala esterna e il loggiato sul fronte principale risalgono anch’esse al XV secolo, mentre la torre pentagonale con l’orologio è dell’inizio del Trecento, come i fregi in cotto attorno alle finestre ogivali. Sulla facciata, in mezzo alle finestre, c’è lo stemma della Comunitas Castri Arquati, sotto al quale c’è l’arco a sesto acuto che porta in Via Sforza Caolzio e al Monumento ai Caduti.
Il Salone Consiliare conserva l’originale soffitto a cassettoni e una ricca decorazione pittorica.
Anche Palazzo Vigevani-Gravaghi si trova sulla piazza, ed è sede del Municipio: al suo interno presenta un soffitto a cassettoni e diversi affreschi.
Si torna in Via Sforza Caolzio dal voltone del Palazzo del Podestà, proseguendo per Via Vassalli e Via Villaggi, dove c’è il Conservatorio omonimo con l’oratorio di San Nicolò.
Il Conservatorio fu eretto tra il 1663 ed il 1700 grazie alla donazione di don Francesco Villaggi, che volle lasciare i suoi beni per la costruzione di un convento di clausura, poi adibito a istituto per ragazze povere: oggi è un confortevole ostello aperto da giugno a settembre. Di fianco a questa struttura c’è l’oratorio di San Nicolò, sorto nel XIII secolo e caratterizzato dalla copertura conica della cella campanaria.
Da Via Vassalli si entrare in Via Illica per visitare la Porta di Sasso, parte di quelle opere di fortificazione del borgo cui Azzo e Luchino Visconti, tra il 1342 e il 1349, avevano dato grande impulso, chiudendo entro le mura il quartiere Campidoglio (rivolto a sud-ovest), il Solario (borgo alto), e i quartieri del Bozario e Monteguzzo, compresi nella parte bassa del borgo. A quell’epoca risalgono la porta di Monteguzzo – di cui si è detto -, e quella di Sasso, rivolta verso Lugagnano: in pietra e mattoni, è sovrastata da cinque merli ghibellini; la parte interna mostra un arco a sesto ribassato, quella esterna a tutto sesto.
Consigliamo di leggere l'articolo di Lorenzo Taccioli, fotografo che ama visitare le bellezze delle città italiane.
Dintorni
Prima di arrivare a Vigolo Marchese, si può deviare a sinistra per visitare la chiesa di Sant’Antonio in Costa Orzata (200 m s.l.m.), edificata su commissione di un notaio di Castell’Arquato nel 1361. L’edificio fu rifatto nel 1634 e restaurato nel 1779, ma il suo aspetto neoromanico è dovuto alla ricostruzione di Manfredo Manfredi nel 1911.
Vigolo Marchese si trova a 6 km circa da Castell’Arquato, in direzione Carpaneto e nell’alta valle del Chiavenna, a 132 metri s.l.m.
È uno dei borghi più antichi del piacentino, e fu vicus dei marchesi Obertenghi fin dai primi anni del secolo XI.
Vigolo fu un borgo di fede guelfa che combatté contro la supremazia viscontea, tanto che Galeazzo I ne distrusse il castello nel 1314. Nel 1326 il fortilizio apparteneva al clero e Antolino Mancassola ne era Vicario Generale e capitano.
Probabilmente il castello fu di proprietà dei conti Sforza di Santa Fiora già dai primi decenni del XVI secolo: nel 1595 era certamente del cardinale Francesco Sforza. All’alto prelato successero i Pusterla, a cui si deve il nome con cui è abitualmente chiamata la torre supersite della fortezza di Vigolo: si tratta di una massiccia torre in laterizio con beccatelli molto sporgenti, sui quali si innestano le caditoie. L’edificio, in origine, aveva quattro torri angolari: una quadrata e una tonda ad est, e due garitte ad ovest. La corte fortificata era sorta sul castello dei Pallavicino (la dinastia obertenga), che, a sua volta, fu eretto su un insediamento tardo-romano
Eccellenti vini e un’ottima quanto segreta torta al cioccolato sono ulteriori stimoli a visitare Vigolo Marchese, ma il paese custodisce anche due dei tesori romanici più importanti d’Italia: la chiesa e il battistero di San Giovanni, le due strutture rimaste di un complesso monasteriale benedettino di fondazione obertenga.
Gli edifici sacri furono commissionati dal marchese Oberto d’Orta nel 1008 e sono presenti tutt'ora.
Il Battistero fu eretto sul luogo di un tempio romano, che, in seguito era stata una cappella consacrata a Santo Stefano.
Il tempio fu costruito in pietra e laterizi nel secolo XI su pianta circolare trilobata, poiché le tre absidi sono molto sporgenti: questa pianta centrale trae ispirazione dai prototipi paleocristiani e ravennati.
L’esterno è su due livelli: quello inferiore ha un diametro maggiore ed è cadenzato da tozzi pilastri semicilindrici che sostengono archi a tutto sesto in forte aggetto; sopra c’è un tamburo rotondo con copertura conica. L’interno è diviso in due parti: un vano ambulacro con volta ad anello e una parte centrale, con cupola sorretta da sei pilastri rotondi; un capitello romano di età imperiale funge da vasca battesimale, mentre, in un’abside, restano tracce di affreschi del secolo XI, tra i più antichi della provincia.
La chiesa di San Giovanni è alla destra del battistero; fu anch’essa costruita con sassi e mattoni. La facciata a salienti, tripartita da due lesene molto sporgenti, presenta al centro il portale a tutto sesto, sormontato da due piccole monofore e quindi da archetti pensili.
Il campanile si trova in fondo al lato sinistro della chiesa, è in mattoni e separa i due edifici.
L’interno a pianta basilicale è suddiviso in tre navate da pilastri cilindrici e ha un’unica abside: nel 1579 fu radicalmente modificato con l’inversione dell’orientamento verso est, la distruzione dell’abside e l’aggiunta delle cappelle laterali, ma i restauri del 1972 hanno riportato il tempio al disegno originale, ripristinando anche la copertura lignea.
(Parrocchia: tel. 0523.896363).
A qualche chilometro da Castell’Arquato, in direzione Carpaneto e poi verso Doppi – San Protaso, si vede esternamente “la Sforzesca”, un complesso architettonico degli Sforza individuabile per il giardino, rialzato rispetto al livello della strada. La struttura cinquecentesca, benché modificata nel tempo, presenta ancora un antico mulino.
Da Castell’Arquato una strada sulla riva destra dell’Arda porta, in direzione sud, alla frazione di Pallastrelli. Nei pressi del paesino, in località Panegano, si trova una delle più antiche cappelle del territorio: la Cappellina di Maria Maddalena, già citata in una Bolla di Bonifacio IX del 1296 come molto antica. In pietra e laterizi, ha un tetto a capanna, due piccole monofore a forte strombatura ai lati e un’absidiola semicircolare.
Proseguiamo fino ad attraversare l’Arda e torniamo sulla Lugagnano – Castell’Arquato in direzione Castell’Arquato: stiamo attraversando la stazione 8 della Riserva naturale paleontologica del Piacenziano.
Sotto le cime dei monti Padova e Falcone, infatti, si stagliano creste e profondi solchi, con affioramenti di argille e sabbie del Piacenziano (stratotipo geologico tra i 3,5 e 2,5 milioni di anni, Pliocene medio-superiore): si tratta delle tipiche stratificazioni biocalcarenitiche giallo/arancio. Nella prima metà del XIX secolo, il proprietario terriero Giovanni Podestà scoprì in questo luogo uno scheletro acefalo di delfinide (oggi conservato a Parma), mentre il dottor Antonino Menozzi, nel 1934, rinvenne i resti di una balenottera custodita al museo di Castell'Arquato.
Dal capoluogo ci si porta sulla riva destra dell’Arda per visitare Bacedasco Alto (255 m).
Questa frazione, secoli fa divisa tra gli Scotti di Vigoleno e gli Sforza di Santa Fiora, è caratterizzata da fonti termali bicarbonato-solfuree-salso-bromoiodiche, originate da depositi evaporitici: il toponimo del paese è di origine longobarda, e significa “terra delle acque”.
Il vasto parco termale occupa 200 ettari recintati sulle prime colline, tra i 148 e i 250 m s.l.m., attualmente chiusi al pubblico; al suo interno si sviluppa un attrezzato Golf Club.
In paese si visita la chiesa di Santa Cristina, documentata nel 1308 e rifatta in stile neoromanico nel XX secolo.
Da Bacedasco, andando verso nord-est in direzione Alseno, si visita la frazione di San Lorenzo (178 m), la cui chiesa omonima è citata nel 1296: al suo interno si ammira un San Lorenzo del 1583, opera di Dionisio Calvaert di Anversa, il maestro di Guido Reni.
Nel vallone di San Lorenzo si visita la cappellina di Santa Franca, costruita in tempi antichissimi accanto ad una fonte di acqua fresca usata dai pellegrini medievali.
Siamo nei pressi della stazione 6 della Riserva naturale paleontologica del Piacenziano, che comprende l’alveo del torrente Arda a valle del ponte di Castell'Arquato fino alla deviazione per Frantoio di San Cassano: il fiume scorre tra alte scarpate erose, ricche di una successione fossilifera di strati sabbiosi e argillosi che registra il passaggio tra Pliocene e Pleistocene. Nel 1986, presso il ponte, è emerso un raro esemplare di granchio fossile in ottimo stato di conservazione, esposto nel Museo Geologico di Castell’Arquato.
Informazioni Utili
Municipio
Piazza Municipio, 3
Tel. 0523-804011
Fax: 0523-803982
E-mail: comune.castellarquato@sintranet.it
Siti web: www.comune.castellarquato.pc.it - www.castellarquato.com
Carabinieri
Tel. 0523-805162
I.A.T.
Via Dante
Tel. e Fax: 0523-803091
E-mail: info@castellarquato.net - iat@castellarquato.com
Sito web: www.provincia.piacenza.it
Pro Loco
Via Sforza Caolzio, 12
Tel. 0523-804181
Riserva naturale paleontologica del Piacenziano
Tel. 0523-795217
Fax: 0523-326376
Museo Geologico di Castell’Arquato: tel. 0523.804266 – 803091
Comunità Montana Valli del Nure e dell’Arda
Bettola - Piazza Cristoforo Colombo, 6
Tel. 0523-900048 - 0523-911541
Frazioni: Bacedasco Alto, San Lorenzo, Vigolo Marchese
Distanza da Piacenza: 30 km
Superficie: 52 kmq
Altitudine: 224 m
residenti: 4.580 circa
CAP: 29014